La tecnologia come opportunità.
In un momento di profondo ripensamento delle prerogative e della funzione del policymaker, in un mondo sempre più accelerato e sempre più lontano dalla favola bella della “fine della storia” cara a Fukuyama, anche la figura dell’operatore del diritto sta vivendo la sua mutazione.
Questo vale a fortiori per chi si occupa dei temi che una volta si chiamavano genericamente “informatica giuridica” laddove oggi si preferisce parlare di “diritto del digitale”: temi che peraltro non si limitano alla sfera puramente tecnica ma che investono tutti gli aspetti della vita sociale ed economica. Tant’è vero che da un lato abbiamo una normazione comunitaria sempre più ricca e articolata (un semplice censimento dei Regolamenti e delle Direttive, che fino a 10 anni fa sarebbe stato ridotto a 4-5 voci, occupa ormai una pagina abbondante, senza contare la normazione secondaria), dall’altro una tendenza ormai costante alla delegificazione e alla deregolamentazione delle disposizioni in materia ad es. di amministrazione digitale, il che comporta sì il vantaggio per il legislatore di assicurare un adeguamento continuo all’evoluzione tecnologica, ma nello stesso tempo la necessità per l’operatore del diritto di tenersi aggiornato sulla sterminata proliferazione di standard, normative tecniche, linee guida, strategie, testi di indirizzo, libri bianchi, working papers e così via, senza contare giurisprudenza e dottrina spesso contraddittorie su questione “di frontiera” (si pensi alla definizione di algoritmo).
Di questa complessità ha già scritto su queste pagine la prof. Sandei, sottolineando con autorevolezza come la visione tradizionale della compliance non tenga conto delle opportunità e insieme delle sfide portate dalla trasformazione digitale. Più modestamente, vorrei richiamare l’attenzione sulla natura dialettica della compliance stessa, che si può oggi considerare non più un mero onere (nonostante la crescente complessità della normazione), bensì come un dialogo tra l’operatore economico e l’ente regolatore, in una sorta di co-progettazione delle condizioni organizzative e tecniche in grado di garantire la rispondenza di un bene o servizio a certi parametri stabiliti attraverso una concertazione multistakeholder.
Ecco quindi che l’operatore del diritto oggi non può più essere il singolo professionista, per quanto bravo, ma un team strutturalmente multidisciplinare in grado di affiancare alle competenze più squisitamente giuridiche competenze tecniche e ingegneristiche oltre che di project management, design thinking, comunicazione, relazioni istituzionali e così via. Del resto è quanto il legislatore ha forse inteso suggerire con l’istituzione delle STA, fermo restando l’auspicio ad un alleggerimento dei vincoli in tema di composizione della compagine societaria e delle prerogative dei soci non professionisti.
Mentre il legislatore alle prese con la riforma del processo penale invita gli avvocati a fare il backup, questi devono oggi confrontarsi con temi di ben più cogente complessità, quali l’intelligenza artificiale, il procurement di innovazione, la proprietà intellettuale, la sicurezza cibernetica e molti altri, impegnandosi nello stesso tempo ad accogliere l’emergere di nuovi paradigmi (legaltech, regtech, giustizia predittiva, …) come opportunità preziose anziché come minacce alla sopravvivenza stessa delle professioni legali.